Fin dai tempi della gestazione siamo abituati a seguire un ritmo che scandisce il tempo.
All’inizio era il cuore di colei che ci portava in grembo a dare una cadenza ai minuti e alle ore che passavano.
Nell’arco della vita continuiamo ad avere bisogno di scandire il tempo e lo facciamo tramite orologi, calendari, fasi lunari, stagioni, secondi, anni, decenni, ma anche dividendo le giornate in mattina, pomeriggio, sera e notte ecc. Anche nell’organismo abbiamo individuato dei tempi ben precisi, come i ritmi circadiani (del giorno), ultradiani (di più giorni) e infradiani (all’interno della giornata).
Siamo soggetti a cicli fisiologici di 90-110 minuti che costituiscono le fasi in cui l’organismo è più o meno attivo. Sappiamo per esperienza che in momenti diversi del giorno ci si sente in modo diverso; in alcuni momenti siamo più lucidi ed energici e in altri momenti più rilassati e rallentati, tutto in funzione di specifici ritmi ormonali.
Anche gli impegni esterni diventano un ‘orologio esistenziale’ che scandisce il tempo.
Il tempo, in definitiva, rappresenta una griglia, una mappa del territorio che ci aiuta a orientarci, dando un senso alla vita che passa (ecco il grande successo dell’età cronologica!).
Quando il tempo si destruttura, come avviene nei casi di ricovero o di costrizione in casa in cui ’non si ha nulla da fare’, la nostra mente perde il ritmo e anche la percezione di efficienza.
Sopraggiunge la noia, la sensazione di avere tanto tempo piatto in cui non ci sono impegni.
In questi casi, è necessario darsi da soli un ritmo, più o meno lento a nostra scelta, che possa ripristinare le geometrie della quotidianità.
Cosa fare?
Scrivere un programma di almeno 7 cose da fare durante il giorno, in modo da dare un ritmo al tempo che passa.
Tra le attività, però, inseriamo anche un periodo in cui oziare, in cui restare in compagnia di se stessi.
Prof. Giuseppe Alfredo Iannoccari - neuropsicologo, presidente di Assomensana, docente all'Università di Milano